Loris Malaguzzi: l’affetto del maestro per il suo Appennino

“Donne e gli uomini, pieni di malinconia per i figli espatriati a Genova e Milano, e loro messi lì, a guardia delle radici”

( Ligonchio, 07 Luglio 2011 )

Le note che seguono sono tratte da frammenti autobiografici ritrovati in casa di Loris Malaguzzi, conservati da suo figlio Antonio. Pagine piene di quell’affetto che in maestro di Sologno a custodito nel suo cuore e tradotto in scritti probabilmente negli anni tra il 1989 e il 1991, quando era ormai settantenne.

Quando a fine d’anno ci dicemmo addio c’erano già i tamburi di guerra e i primi esami all’università. Da allora in poi scuola, università e guerra correranno in parallelo. (…..)

Con questo ingenuo stato d’animo l’anno dopo salii a fare il maestro a Sologno di Villaminozzo, alle falde del Cusna. Un piccolo borgo di cui non sapevo l’esistenza. Sapevo che dovevo fare, per raggiungerlo, molti chilometri a piedi. Non ricorderò gli sgomenti iniziali. Dirò solo che fu un’esperienza straordinaria. Lassù a 800 metri, per due anni di seguito, imparai mille cose: l’arte di camminare a piedi, di orientarmi con alberi e rocce, di capire i sentieri fasulli e quelli veri, di guadare torrenti, di scoprire la generosità dei castagni, la cordialità dei silenzi, le incredibili capacità arrangiative della gente, i lacci per acchiappare le lepri, gli infiniti spessori della miseria in una terra di confine da cui gli abitanti continuavano a fuggire. A legarmi di un’amicizia profonda coi quindici ragazzi dagli zoccoli di legno, ingiaccati con giacche enormi ereditate, dalla parlata stretta con l’u francese, curiosi, furbi, dagli occhi sicuri, a mezzadria di fatto con la scuola e le pecore, coi compiti e i lavori della stalla, delle carbonaie e dei campi.

A far funzionare la scuola in una stalla appena evacuata, ad accendere e riaccandere la stufa ogni mattina per via della legna verde, a lottare ogni giorno coi ritardi dei ragazzi, aiutandoli spesso ad asciugare i calzini bagnati, a rifornirli di quaderni su quaderni del patronato scolastico.

Ad amare con gratitudine il mulo di Fortunato che viaggiava ogni giorno fino a Castenuovomonti per rifornire di riso, vino e salumi i 146 abitanti, 147 con me. Ad attendere con desiderio le anomalie dell’allegria gentile poi chiassosa e sbracata della domenica che mischiava messa e osteria e che finiva a notte fonda coi ragazzi e le donne che venivano a riprendersi i fratelli, i padri, i mariti. Ad andare a vegg (a veglia) nelle case di pietra a discorrere con le donne e gli uomini, pieni di malinconia per i figli espatriati a Genova e Milano, e loro messi lì, a guardia delle radici.

A crescere in sintonia con don Carmine, anche lui giovane, nuovo di zecca come me, al primo incarico, rassegnato a non far carriera: senza battesimi, matrimoni, solo messe ed estreme unzioni, impaurito dall’osteria ( dove io abitavo), pronto a strumentalizzarmi per le feste dei ragazzi che gli sfuggivano di mano. E, infine, a giocare, com’era obbligo per il sig. maestro, a carte, a briscola e a busche dove la cosa più astrusa, temibile e comica, era vedere come un neofita come me e le sapienze astute dei vecchi montanari se la cavavano a trovare segnali segreti.

I tempi lunghi mi lasciavano leggere quanto volevo. Divoravo Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Rilke, Maupassant, Montaigne, Moravia, il teatro di Pirandello, ma anche molti manuali di didattica. Non mi interessavano le grandi lezioni, né le grandi teorie. Non capivo nulla dell’Estetica di Croce, e Rousseau, lassù erano solo ridicoli.

Dovevo lavorare di pratica con un cervello diviso in cinque parti per una pluriclasse che accoglieva ragazzi di prima (impossibile chiamarli bambini perché troppo maturi e navigati) seconda, terza, quarta e quinta. Una tastiera che torturava un mestiere ai primordi. E che metteva alla gogna i sette anni delle magistrali.

Leggevo i giornali quando Fortunato trovava il tempo per acquistarli. La guerra era lontana, la cacciavo via, ero lontano dalla città. Trovai il modo di dare 6 esami all’Università. Scendevo a Reggio due volte al mese. Una scappata dai miei, una dalla fidanzata, una dalla biblioteca per scegliere altri libri.

In due anni due ispezioni dal Direttore Didattico Scalabrini che stava a Carpineti: un bicchiere all’osteria, parole buone, tutto bene.

La guerra c’era. Feci una scappata a Reggio. Una città senza parole. La gente non c’era. Solo persone che si muovevano in silenzio.Cercavano la spesa. Case vuote. A pranzo mio padre mi confessò che era già difficile trovare da mangiare. La carne, il burro, erano un lusso. Il pane era nero, i negozi poveri di cose. Tornato a Sologno andai attorno ai miei risparmi e comprai quattro agnelli, i più belli. Volevo fare una sorpresa. Era carne della provvidenza. I quattro agnelli mi morirono quasi insieme dopo aver leccato la calce rossa che teneva i sassi delle case. Non era giusto. Restò l’unica speculazione della mia vita. Non confessai nulla in famiglia.

I due anni a Sologno furono di grande maturazione personale e tirarono via gli ultimi brufoli della mia adolescenza. Il commiato avvenne all’osteria, un luogo di peccato, diceva Don Carmine. Ma venne anche lui. Ricevetti in regalo 8 pani di burro, una bottiglia di liquore di erbe, un salame fatto in casa, un sacchetto di castagne. Offersi da parte mia una torta dolce di castagne e una mastodontica bevuta di vino toscano. Venne anche la fisarmonica. Anche i ragazzi sorseggiarono (si fa per dire) il vino toscano dei padri.

Il brano autobiografico è tratto dal numero speciale della Gazzetta di Sologno, realizzato in occasione della sera organizzata in onore del gruppo internazionale che ha preso parte alla settimana di Reggio Children: ‘I Cento linguaggi in dialogo con l’ambiente’ (Ligonchio 2-9 luglio 2011)

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